Botte a un Professore alla Carducci di Catania: l’editoriale.

A Catania un professore rimprovera una ragazza poco studiosa in classe: lei lo riferisce a casa e mamma e fratello maggiorenne si vendicano picchiando il professore a scuola, durante l’orario delle lezioni.
Di chi è la colpa? Perché non si riesce a comprendere che questa continua delegittimazione delle istituzioni, anche scolastiche, rovina prima di tutto i nostri figli?
Tutto comincia dalle chat di classe su what’s app.
L’esigenza di dimostrare che i propri figli siano più fighi e intelligenti dei figli altrui (spesso la gente da buoni consigli, se non può più dare cattivo esempio) porta genitori di ogni ceto sociale a scaricare sugli unici assenti dalle chat (perché i figli le leggono, eccome se le leggono) le loro frustrazioni.
Professori che non sanno spiegare, professori con pregiudizi, professori che “non capiscono mio figlio”, professori che “ma non lo sanno che pago anche l’insegnante privato”, professori che “ma come si permettono? Mio figlio ha preso il First!”.
E i figli leggono le chat, se le passano, emettono sentenze su poveri cristi trent’anni più grandi di loro che prendono insulti dal mondo per qualcosa più di mille euro al mese.
La Carducci, quella del fattaccio, è una scuola frequentata, in larga misura, da famiglie considerate “bene”.
Pensare si tratti di una “scuola d’elite”, considerandolo un fatto positivo, significa non avere chiara la mutazione antropologica delle elite nell’ultimo decennio: ma questo è un discorso troppo lungo.
La ragazzina, incolpevole, pare abbia un nome da telenovela, con la “y” finale, scelto naturalmente da genitori desiderosi sin dalla nascita di rivendicare figli telegenici, di successo, belli come gli attori e le attrici, pronti a sfondare nel mondo dello spettacolo.
Sin dalla culla, ca va sans dire.
Pregiudizi onomastici?
No, studi classici: nome omen, un nome un destino.
Telecamere accese, taccuini aperti, un bel vendicatore (vendicatrice) pronto a finire sui giornali o in televisione pur di lavare l’onta di una figlia ingiustamente accusata di non studiare abbastanza. Scuola, infanzia, bambini
Basta poco. Una denuncia da sventolare come un trofeo e poi quel sussurro, che diventerà un messaggio su qualche chat, fino ad arrivare alle orecchie della ragazzina incolpevole e dei suoi amici: “ha fatto bene, la prossima volta questo professore ci penserà due volte”.
Educazione 3.0.
Si, cari amici della “Catania-bene” (viene da ridere solo a scriverlo), ma la questione è applicabile a qualunque Città, a qualsiasi scuola, a ogni contesto sociale: i mandanti della tipa che spacca la faccia al prof siamo tutti noi, anche solo ogni volte che in una chat innocente scarichiamo sugli altri (i professori, il compagno di banco, l’amichetto del catechismo) i deficit educativi che sono sempre colpa nostra.
E la crittografia della chat di what’s app non ci salverà, fidatevi.Scuola, infanzia, bambini

Paolo Di Caro
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Paolo Di Caro

Classe 1972, Misterbianchese, giornalista, manager pubblico, Sommelier master class. Da due anni, vista la crisi del teatro, anche attore amatoriale. Ex runner con l'artrosi, appassionato di Dylan Dog e Corto Maltese. Per invidia. Il Bilbo Baggins che era in lui è partito, Frodo non ha più l'Anello e anche Gandalf non è che si senta benissimo. A parte questo, non molla mai.

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