Il portatore del Santo Mistica, religione, tradizione della Festa Grande
Aspettando Sant’Antonio, un racconto del 2010, ma senza tempo, di un devoto, un Misterbianchese, accidentalmente giornalista in esilio.
L’appuntamento con Turi è già di primo mattino, per assistere alla “svelata”. Quando il Santo, cioè, fa la sua apparizione nel momento in cui viene portato fuori dalla sua “cameretta”, il piccolo anfratto nella chiesa Madre dove è conservata la sua statua. Un popolo intero è lì ad attenderlo. Come se da quella stanza ci fosse davvero il ritorno di un padre, di un amico, di un angelo custode. A questo segue il rumore delle “bombe”, così si chiamano dalle mie parti i fuochi d’artificio, che dopo la messa solenne è assordante. Ma “Antonio” è il Santo del fuoco. E fuoco sia, quindi. Tanto e tanto rumoroso che quando il fercolo supera la porta principale della chiesa per entrare in piazza per essere accolto tra la sua gente, il fumo denso delle bombe e della moschetteria oscura per qualche istante anche il sole stesso. Manco fossimo sotto l’assedio delle frecce dei persiani, lì al passo delle Termopili.
Il dettaglio non è casuale. Perché è così, in fondo, che si sentono i “portatori”. Guerrieri chiamati a una grande giornata di gloria. Sì, oggi è proprio il loro giorno. Il momento in cui, dopo un’attesa che dura ogni volta tre lunghi anni, un’intera città prende in spalla il proprio legame con quelle quattro “basole” di pietra lavica che determinano questo strano paese, dal nome strano (Misterbianco, sì si chiama davvero così) e dalla strana fauna che si raccoglie ogni volta con la stessa intensità per festeggiare questo mistico egiziano che nel deserto al diavolaccio non gliene fece passare una. E i quattro rioni che si passano come un testimone la pesantissima vara in legno e ferro dell’Abate devono dimostrare con la più sontuosa marcia di essere i più degni e i più bravi a portare sugli allori l’Amato che infonde “fede ed amor”. Per cui, come si può immaginare, oggi non è un giorno per spiriti spenti.
Quest’anno, nel mio quartiere, le cose si fanno in grande: addirittura le polo abbiamo, con tanto di stemma della Madonna sul cuore. Noi i “Panzera” siamo. Non era in programma la mia presenza, ma quest’anno sono voluto tornare diciassettenne. Sì, l’ultima volta che mi avventurai tra i portatori avevo quell’età. Ero a fianco di mio padre, ancora non alto a sufficienza per valere qualcosa in mezzo a quella carne matura, sicura e sudata. Me lo dicevo seduto al pc mentre lavoravo all’ennesimo articolo che riassumeva l’ennesimo stillicidio più o meno falso che si consuma nella politica italiana: “Anche quest’anno non riuscirò ad andare”. Mi sentivo male, rassegnato. Poi, in un attimo, fai i biglietti di treno e di aereo e decidi: “E invece quest’anno porterò il Santo”. No, nessuno poteva togliermi questo. Né i ritmi del teatrino della comunicazione. Né la vacuità del vortice degli affetti di plastica e tutte le bassezze edulcorate dalla dissimulazione dei codici metropolitani. Né, tantomeno, le troppe scorie che mi porto addosso frutto dei miei peccati. Nessuno, nemmeno la mia pigrizia, stavolta poteva scindere questa gioia.
Io sono uno dei pochi davvero inadatti a fare una cosa del genere. Sottopeso, spalle strette, muscoli impigriti dalla scrivania e davvero poca forza rispetto alla media degli altri portatori. Però il mio posto lo conquisto lo stesso. Un po’ per educazione, un po’ per devozione e un po’ per rispetto: sempre un Rapisarda sono. Mio padre, assieme ai suoi amici più cari, è rappresentato in una delle cartoline che è divenuta immagine iconica, frammento epigrafico di ciò che significa questa festa. Per non parlare di mio nonno, Antonio Rapisarda, che per il suo funerale anche le luce della “vara” dei Mastri (il cereo votivo che raccoglie una delle quattro corporazioni di devoti assieme ai pastori, ai carrettieri e ai vignaioli) hanno acceso. Per rispetto e perché la sua vita di mastro muratore l’aveva trascorsa adorando questa festa, i suoi protagonisti strampalati e i suoi rituali lenti. Probabilmente quello fu l’estremo tributo a un paese che non c’è più. A un tipo d’uomo che ha smesso di esistere. Me ne accorgo ogni giorno di più. Per questo sento il richiamo di esserci. Una piccola colonna di marmo nella palude.
Denti sgangherati, zigomi gonfi e la pelle imbrunita e rovinata da un sole che da queste parti corrode. Questi sono i tratti di tanti miei compagni portatori. I più, a quanto sembra, lavorano duramente all’aria aperta durante tutto l’anno. Italiano, come lingua, da queste parte ce n’è poco. E io sono felice di questo: perché il siciliano l’ho imparato a denti stretti prendendo cazzotti a valanga e sputando sangue nel vicolo sotto casa, quando il cordone dalla mamma si è spezzato. E mi sono accorto che la vita aveva delle regole un po’ più severe del collegio dove andavo a scuola. Per cui mischiarmi con la mia gente significa tornare a mangiare un po’ di quella “scuola” che è stata importante per la mente quanto Seneca e Junger lo sono stati per l’anima.
Ritrovarsi a portare il Santo adesso. Alla soglia dei trenta. Non credo che sia solo nostalgia dell’emigrato. E nemmeno un vezzo di quello che se n’è andato fuori per dare un senso ai propri studi.
No, si porta il Santo perché è la cosa giusta da fare.
Ognuno darà il proprio significato: chi per tradizione di famiglia, chi per “gallismo” rispetto alle fanciulle, chi per prova di forza, chi per devozione. Non lo so perché sono davvero qui. Ma non importa. Ci siamo, belli e forti, e con un obiettivo davanti: mettersi in spalla il fercolo e fare di quella fottuta salita uno spettacolo. Trasformare ogni lacrima di sudore in una nota.
Ci saranno più di trentacinque gradi. E siamo appena alle undici. La messa di padre Franco è bella. La sua parlata non è scontata: spiega il senso della comunità, di che cosa significhi portare assieme le nostre vite come adesso ci prepariamo a portare il Santo. Ma, con tutto il rispetto per il nostro prete preparato, non aspettiamo altro che finisca. Alle fine chiniamo la testa e ci arriva la benedizione. Ci sentiamo soldati al fronte. Partiamo da piazza del Carmine. La paura è proprio all’inizio. Coordinare quasi cento persone che devono alzare una struttura per portare in spalla migliaia di chili non è cosa facile. Basta un po’ di squilibrio, un cedimento o una distribuzione non equa delle forze che è possibile provocare un disastro. E invece, coordinati come se fossimo una squadra da sempre, la “vara” al suono della campanella del “maestro” si alza prepotentemente da tutti e due i lati. Si va. Si marcia a suon di musica e con le spalle che già fanno crack. Siamo tutti già un bagno di sudore e puzzo. Ma Sant’Antonio deve andare avanti.
Camminiamo come una testuggine romana. L’acqua viene razionata. Nessuno pensa solo per sé. Perché un passo falso dell’uno può significare il crollo di un’ala e la caduta del fercolo. Io, terrorizzato di essere proprio tra i più deboli, cerco di non perdere la concentrazione. Mi aggrappo a Turi, amico e sodale di tanti sorrisi. Anche amari. Le signore e le belle ragazze ai lati della processione aiutano questo fronte in cammino con ogni bene: fazzoletti, ma anche sguardi affascinanti e sorrisi compiaciuti. I “loro” uomini stanno dimostrando di valere qualcosa. Per cui avanti dobbiamo andare. Anche per loro.
A un certo punto, tra le urla e gli incitamenti stile Giro d’Italia, incrocio uno sguardo spento. Un signore anziano, sorretto a stento dalla moglie, piange al nostro passaggio. Mi sento morire dentro. Incrocio per un attimo i suoi occhi e cerco di porgergli un sorriso. Ma lui nulla. Dopo un segno della croce e una frase balbettata al ritmo di una bocca ormai sdentata si ritira nella sua oscurità.
Ha proprio ragione il mio amico Daniele Gangemi, un regista di talento: “Antonio – mi spiega ultimamente – ci sono persone che non possiamo salvare. Ce ne sono altre che non si fanno salvare. Altre ancora che ci sfuggono proprio quando mostriamo loro una speranza”. Il mio vecchietto non sfugge. Ma aspetta solo la sua ora.
Mio padre a tutti noi ha preparato una sorpresa. Ha convinto il direttore della banda ad eseguire un pezzo a sorpresa nella scaletta. Perché se tutto inizia con la marcia trionfale della “Aida” di Verdi e a questa segue la marcia trionfale di Radetzky, quella della vittoria dell’impero asburgico qualcosa di nostrano mancava.
Ecco che infine, proprio nel punto cruciale del nostro tragitto, arriva il pezzo forte. Durante la salita di San Nicola si marcerà con il motivo della leggenda del Piave.
Come a dire, di fronte ai “Panzera”, cari concittadini, “non passa lo straniero”. A
lle note dell’irredentismo io e miei compagni richiamati allora dallo spirito delle trincee spingiamo. Le urla di guerra si mischiano alle imprecazioni. Sant’Antonio, per fortuna, fa finta di non sentire.
Caspita quanto spingiamo. Un-due, un-due, un-due, la salita è nostra. In piazza, davanti alla chiesa del santo patrono di Bari, una folla incredibile ci aspetta.
Alla fine, eccoci, entriamo. E che ingresso. “Pan-ze-ra Pan-ze-ra”, l’urlo da stadio lo facciamo sentire a tutta la città.
In effetti mi accorgo di aver perso la verve da piccolo supporter dei campi polverosi dell’Eccellenza con il mio Misterbianco.
E allora, cazzo, urliamolo davvero tutti: “E cu vera fiiidi”, “Evviva Sant’Antoooniii!”. La piazza è dei portatori. Fateci largo allora. In cento contro la fatica, i chili del Santo, la fine del mondo e il destino tutto. E adesso resta solo la scalinata della chiesa. Perché “Antonio” deve riposare tra mura sacre. Dopo l’inno sacro, che a stento riusciamo a balbettare tanta la fatica, il caldo e i muscoli tirati, la piazza ci chiama all’ultimo sforzo: risalire quelle scale.
Nessuno, come era previsto, abbandona la postazione. In ginocchio, la campanella dà il via.
“Driin”. In piedi. Andiamo.
La scalinata è il punto più pericoloso. Perché il percorso si stringe attorno alla porta della chiesa. E infatti Giovanni proprio lì scivola e si fa male, ma è forte, si riprenderà. Dopo un calvario e un po’ di tensione a causa di un’entrata stilisticamente non perfetta alla fine la vara del Santo è dentro. E le lacrime si mischiano ancora con il sudore. Lì dentro ci abbracciamo tutti, ricchi e non, cristiani e bestemmiatori, amici con nemici, conosciuti con sconosciuti. Per poi tornare probabilmente ciò che si era prima. Per poi ritrovarsi ancora tra tre anni. Non importa. Perché anche stavolta il vincolo non si è spezzato. Quel mite Abate permette ancora tutto questo. Perfino “nell’epoca liquida di Bauman” direbbe compiaciuto mio compare Giovanni Marinetti.
Io mi ritrovo con una spalla che non sento più, nemmeno un filo di voce e le gambe che mi tremano.
Vedo mio padre contento, mia madre che sorride come sempre. E allora penso. Anzi non penso, “sento”. Ripartire l’indomani per Roma dopo tutto questo. Lo squallore del risveglio e l’appuntamento con l’aeroporto. E poi la rincorsa tra faccia stanche, il fetore dei quartieri-per-artisti-e-le-loro-traversine-per-incontri-interessanti-come-filastrocche-monche e l’illusione casalinga della raccolta differenziata che aiuta a dare un senso per sé.
Ma tra quelle “basole” quella domenica ho recuperato la forza di urlare.
Ho riscoperto l’incoscienza adolescenziale dell’amore. Adesso sono pronto.
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