Un paese “morto ammazzato” Il caso Arena, le verità processuali, gli omissis, la storia ancora da scrivere
Mentre Zuccaro snocciola nomi e fatti legati al più eclatante omicidio politico-mafioso della provincia di Catania, sembra ancora di sentire quei maledetti elicotteri che sorvolano il Municipio la mattina del 28 settembre 1991.
Una corsa a perdifiato, consci che fosse accaduta qualcosa di grosso; il capannello di persone, il corpo di Paolo Arena riverso sulla strada, sfigurato, senza neppure il lenzuolo d’ordinanza a fare da sudario.
Un monito, anche quello, mentre dipendenti comunali, investigatori, semplici cittadini si affollavano silenti e attoniti.
È morto Paolo, ammazzato.
Per tre quarti di Paese “Paolo” è tutto: consigliere, assessore, sindaco, amico buono, la classica figura che risolve sempre qualsiasi cosa, il democristiano intorno al quale gira ogni cosa a Misterbianco, anche per le sue indiscutibili doti di fine mediatore, da politico di razza, capace sempre di tenere insieme il diavolo e l’acqua santa.
Tre quarti di paese, ma quasi quattro quarti di politica locale, maggioranza e opposizione, signorsì che prendono ordini e signornò che urlano di giorno in pubblico, ma di notte chiedono piccoli favori, sempre a Paolo, per alzare un muro o agevolare una carriera nella pubblica amministrazione.
Storie di paese.
Zuccaro “svela” dopo ventotto anni mandanti e movente dell’omicidio, incastrando Arena nella guerra fra i clan mafiosi dei Pulvirenti-Santapaola e quello dei “Tuppi”, che aveva visto Mario u’Tuppu cadere sotto i colpi dei killer il 16 maggio del 1989, quasi a sancire il sanguinoso passaggio di consegne, tutt’altro che indolore.
Secondo la Procura Arena deve morire perché fa il salto della quaglia e “abbandona” gli amici ai quali fino a quel momento avrebbe anticipato notizie su appalti e affari del Comune.
Mandante Gaetano Nicotra, esecutori materiali Cavallaro, il pentito da cui tutto ha origine, e un altro nome sul quale si cercano ancora riscontri.
Appalti e affari che non si sarebbero mai fermati, neanche dal marzo 1988 all’aprile 1989, quando Arena era per qualcuno, forse, un po’ meno “mafioso”; ad esempio per il rampante esponente del Partito Comunista Nino Di Guardo, lo stesso Sindaco di oggi, che “prende i voti” per sedere sulla poltrona di Primo Cittadino, nella Giunta del compromesso storico, facendo di Misterbianco il solito laboratorio politico alla siciliana, all’insegna del “cumannari è megghiu i futtiri“, che non ha bisogno di traduzione.
Secondo la Procura quelli sono anni nei quali si giocano gli ultimi minuti del derby fra santapaoliani e uomini dei Tuppi, ma non risulta agli atti che vi siano state poi delle pause significative in questo connubio fra mafia e politica, tanto meno rumorose denunce provenienti dal ‘Palazzo’, vergate da vecchi o nuovi rivoluzionari.
Prima di accendere i riflettori sul paese ricoperto di fango si aspetterà, saggiamente, il cadavere caldo di Paolo Arena, il “liberi tutti”, le telecamere di Samarcanda, la scoperta dell’acqua calda anche da parte di quelli che la verginità l’avevano già persa, ma avevano la fregola di mostrarsi illibati, preoccupati di non trovare più marito.
L’inchiesta conclusa da Zuccaro e dagli investigatori mette la parola fine alla vicenda militare, lasciando apertissimi gli interrogativi politici, perché, come dice lo stesso Zuccaro, “Cavallaro è un soldato, non può sapere quali siano le ragioni e gli argomenti sui quali si gioca il tradimento di Arena, o chi ne siano i protagonisti. Quello è patrimonio dei Capi”.
Omissis.
Quali affari furono chiusi e quali rimasero aperti, per chiudersi successivamente?
Quali referenti trovarono i santapaoliani vincenti all’interno del Palazzo?
“Si chiuse una stagione drammatica e si avviò la rinascita di una nuova Misterbianco fondata sulla legalità e il buongoverno”, come tempestivamente e ancora una volta a ‘cadavere caldo’ ha dichiarato ieri Nino Di Guardo, sempre lo stesso Sindaco del 1988, oppure come dimostrano inchieste, condanne e disdicevoli vicende pubbliche a macchia di leopardo, dopo il 1990 la criminalità organizzata fu abile ad adattarsi ai mutati scenari, trovando sempre il modo (e gli uomini) per entrare negli affari?
I verbali, ancora da approfondire, che raccontano di amici e amici degli amici, ben radicati dentro la macchina amministrativa, pronti a favorire questo o quel personaggio, fanno parte di questa legalità e buongoverno o sono campanelli d’allarme di quel “tutto cambi perché nulla cambi veramente”, motto reso celebre dal Gattopardo?
La commissione prefettizia che nell’anno del Signore 2019 sta indagando su presunte infiltrazioni mafiose al Comune di Misterbianco, dopo arresti, cimici, intercettazioni, fa parte del passato che non passa o del presente fulgido e radioso?
Ci piacerebbe saperlo e non è detto che sia finita qui, anzi.
Lo stesso Zuccaro ha ampiamente lasciato intendere che proprio i ‘Capi’ potrebbero raccontare una storia più completa, anche un’altra storia, nei filoni investigativi già aperti o in quelli, eventualmente, da aprire.
Una storia che squarci il velo di connivenze, amicizie, opportunismi e nuovi equilibri.
Quello che è certo è che Misterbianco è morta ammazzata, per mai più rinascere davvero, in quel lontano 1991, insieme a Paolo Arena e alle finte vergini che finsero e fingeranno per anni di non averlo mai conosciuto, profanandone il cadavere quanto e più dei killer che spararono allora.
E il fango è sempre lì, a ricoprire un paese fondato sulle amnesie.
Omissis, appunto.
Un paese “morto ammazzato”.
Il caso Arena, le verità processuali, gli omissis, la storia ancora da scrivere.
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