Santuario e dehor, quando fu che rinunciammo a (far) rispettare i simboli delle nostre radici? Politica disattenta e burocrazia frettolosa hanno contribuito svuotare il Piano degli Ammalati del valore di resilienza di una comunità
Qualcuno dirà che è il segno dei tempi. Che si tratta di una tempesta in un bicchiere d’acqua. Ma francamente vedere il sagrato del santuario alla Madonna degli Ammalati ridotto a un mero spazio pubblico da destinare per tavolate da trattoria fa pensare. E muove una domanda: ma quando fu che i misterbianchesi rinunciarono a (far) rispettare uno dei luoghi simbolo della loro resilienza? Della loro capacità di affrontare e superare quell’evento traumatico della distruzione etnea del 1669?
Perché, diciamolo chiaramente, hanno ragione quanti dicono che quel ‘chianu de malati’ pare abbandonato da tempo. E l’ultima vicenda dell’autorizzazione rilasciata per farne un dehor a pochi passi dalla porticina del santuario mariano è solo l’ultima ferita che, alla fine, tanto male non farebbe. Ma qui, appunto, senza toccare l’aspetto religioso, non si può che trattare la questione dei simboli e delle radici rappresentate da quella chiesetta di campagna.
Ora, se è lecito attendersi una leggerezza simile da una classe politica che a quel Piano ha dimostrato di non essersi mai appassionata (chi non ricorda, ad esempio, il taglio degli storici ‘ped’i bestia’ non rimpiazzati da nessun’altra essenza locale?), tutta proiettata a raccogliere consenso o soddisfare clientele e poco usa a coltivare memoria degli avi, analogo comportamento non ci si aspetterebbe da funzionari di assodata anagrafe locale. Funzionari che, un po’ troppo frettolosamente e incautamente, hanno dato il proprio consenso perché ciò accadesse.
Che cos’è successo allora? Perché i funzionari comunali misterbianchesi, titolari dei servizi, che potevano dire anche NO non lo hanno fatto? Tralascio gli aspetti tecnici per cui avrebbero potuto farlo: per esempio perché non è per nulla rispettato il punto 3 dell’articolo 4 (Ubicazione) del Regolamento sui dehor, datato appena 2017. Ma la questione è un’altra: perché si sono arresi all’ineluttabilità della caduta dell’ultimo simbolo della rinascita della comunità misterbianchese e proprio nell’anno delle celebrazioni del 350° anniversario dalla distruzione?
Forse perché anche loro, come tanti altri, hanno rinunciato da tempo a (far) rispettare quel luogo? Anche loro, come tanti altri misterbianchesi, non ne riconoscono più la qualità simbolica in cui la comunità può riconoscersi? Forse anche loro hanno deciso, come tanti al chiuso delle proprie ville climatizzate, a non uscire più a prendere un po’ d’aria o’ chianu? Contribuendo, così, più o meno consapevolmente, a banalizzare quel luogo, a lasciare magari spazio a chi non ne sa la storia, non ne capisce la suggestione rifondativa, non ne comprende il valore come radici di un popolo?
Il cantautore Francesco Guccini, che ha compiuto 79 anni qualche giorno fa, finiva uno dei suoi capolavori, il brano “Incontro” (inserito nell’album del 1972, dal titolo emblematico ‘Radici’), con queste parole: “Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, e il cuore di simboli pieno”.
Ecco, cari misterbianchesi, cittadini, politici e funzionari pubblici, sarebbe bene ricordare che siamo davvero “qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa”. Ma, almeno il cuore, quello, fate che continui a essere pieno di simboli. Perché dopo di noi, alla fine, qualcosa resti.
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