Il paese che c’era, il paese che c’è Cronache dal passato prossimo di Misterbianco

Passeggiare nel nulla, fra strade deserte e silenzi non d’ordinanza, è un’esperienza nuova, che aiuta a scavare dentro se stessi, ad aprire cassetti della memoria, a rivedere “indietro veloce” i fermo-immagine dell’esistenza.

Passeggiare perché costretti, per lenire l’aggressività di una malattia cronica altrui, difficile da tenere nella gabbia dell’isolamento; per pochi minuti, senza contravvenire a nessuna regola, ovviamente.

Eppure quei pochi minuti profumano di eternità in un paese senza auto e con l’aria rarefatta da troppo ossigeno, persino qui, persino ai piedi del mostro puzzolente che divora futuro e speranze.

Una eternità costruita dai ricordi di chi era quasi ventenne nel 1990, attraversando gli Ottanta da ragazzino, che affiorano mentre i passi rimbombano sul basolato lavico di via Garibaldi.

E il silenzio viene subito rotto, negli anfratti della mente, dalle urla dei ragazzini dell’Oratorio di San Nicolò, i piccoli dei gruppi parrocchiali divisi per fasce d’età, gli animatori poco più grandi, le mani gigantesche e il cuore grande di Padre Vincenzo e lo sguardo bonario e sornione di Giovanni Perni.

Buoni e cattivi, ovunque, come sempre.

E la “rivalità” divertente con i dirimpettai della Chiesa Madre, capitanati da Padre Condorelli, quasi una specie di “lotta di classe”, di Giochi senza Quartiere fra quartieri, tra un Padre Nostro e le mille canzoncine dei campeggi estivi.

Ragazzini terribili e cuori d’oro, “teppisti” autoproclamati, per gioco e per narcisismo, che diventeranno ottimi padri e grandi lavoratori; oppure no, in quella altalena difettosa e cigolante che è la vita.

Tutto sparisce, mentre guardiamo il sole irridente di questa Pasquetta anomala, per poi tornare come rappresentazione affollata e  “guareschiana” di una Piazza della Repubblica ai tempi di una politica diversa, né migliore né peggiore di quella attuale, semplicemente diversa: militanti e galoppini riempivano e svuotavano l’agorà a comando, coi tempi scanditi dalla divisa del Maresciallo del Paese, metronomo dei comizi e termometro della situazione.

Vuota o piena, la piazza non rappresentava quasi mai il “verdetto” elettorale, ma dava da parlare, faceva sognare, disegnava scenari ipotetici sui quali accapigliarsi.

Oratori col piglio goffamente professionale di chi aveva studiato alla scuola di vecchi giganti dell’ars retorica paesana, nati quando il mondo si divideva in comunisti, fascisti e democristiani, fianco a fianco con i novellini impauriti e tremanti, a gracchiare dentro i microfoni sempre uguali di ogni campagna elettorale.

Passi lenti, fotogrammi vorticosi, basole surriscaldate che si macchiano anche di sangue, negli anni: da quello “ostentato” di Paolo  di fronte al Municipio, con gli elicotteri a roteare vorticosamente sulle teste, a quello rinchiuso in un buco nero di Giuseppe, che riaffiora appena varcata la soglia di Piazza Dante.

Ancora silenzio e bar chiusi.

Quei bar che per anni hanno dato voce agli influencer misterbianchesi, padroni ante-litteram di facebook e Instagram messi insieme, se è vero che riusciamo quasi a leggere nello schermo del tempo i loro pensieri sul mondo e sulla società, sul costume e sullo sport, sulle eterne rivalità nei campi di pallone, come sulle generose curve delle signorine della televisione, secondo un canone brancatiano (e abbondantemente maschio-centrico) che dominava quei tempi, anche quelli.

Altafini e Lola Falana, Rivera e gli occhi misteriosi delle ragazzine che a Carnevale scorgevi sotto i “Domino”.

Tutto passava dai bar, crocevia di una umanità differente, quella passata dal bianco e nero al colore, senza smarrire il senso della piccola comunità, quella che si raduna in un luogo e un’ora definita, per trovare una voce e uno sguardo amico.

Da quel vocìo al silenzio è ancora un attimo.

Quello che serve per arrivare o “Coraghesa”, dove tutto inizia e finisce, dove ogni storia di quei Misterbianchesi è un graffito, una epigrafe, un segno scolpito sulla pietra. Sant’Antonio e la Madonna degli Ammalati, le processioni religiose e i loro risvolti  “laici” e comunitari, i canti all’alba, i fuochi dopo mezzanotte, le camminate verso il Santuario illuminate dai fuochi delle fiaccole.

Ci voleva il silenzio, la pandemia, per fare un esercizio di memoria.

È sempre stato così nella storia, perché le grandi tragedie ci hanno sempre restituito lezioni importanti e la forza di ricostruire sulle macerie.

Un paese deserto e silenzioso è  anche pronto a raccontare storie di identità condivise e singolari, fa riflettere senza nostalgia, perché la nostalgia è quasi sempre la malattia infantile di chi non riesce a guardare al futuro.

Speriamo finisca presto questa pandemia.

Nonostante tutto, nonostante, ogni tanto, il rumore del silenzio non sia del tutto una disgrazia.

Paolo Di Caro
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Paolo Di Caro

Classe 1972, Misterbianchese, giornalista, manager pubblico, Sommelier master class. Da due anni, vista la crisi del teatro, anche attore amatoriale. Ex runner con l'artrosi, appassionato di Dylan Dog e Corto Maltese. Per invidia. Il Bilbo Baggins che era in lui è partito, Frodo non ha più l'Anello e anche Gandalf non è che si senta benissimo. A parte questo, non molla mai.

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